Letture sul corpo dell’altro

di Giovanni Leghissa, tratto dal pieghevole della mostra personale alla Kriterion Ga

Il corpo nella sua pesantezza, nella sua imperfezione possibile, resta osceno. Venuto meno il pudore, l’indifferenza della nudità esposta e reiterata non cancella la goffaggine e la gravità dei corpi. Il corpo non è angelico.
La pittura mette in scena una pesantezza analoga: anche l’immagine che cattura lo sguardo non è indifferente.
La via verso la danza, la leggerezza del corpo libero, la purezza della forma passa attraverso l’accettazione di questa oscura materialità; la visione non esclude la tattilità, anzi la incrostatura della superficie rimanda ad un movimento imminente.
Così appaiono spesso i corpi: sembianze, coperture, pretesti per il movimento, conseguenze dui una teoria dell’immagine che cerca conferma nella pratica di una metropoli sempre più irreale e materializzata: In questa topologia simulacrale dei percorsi post – moderni il corpo entra in una perdita irreversibile. Perdita che la continua permutazione del maquillage rende patente.
Di un maquillage si dice che può disfarsi. E’ questa disfacibilità che qui interessa, voglio alludere ad una possibile verità del corpo, intesa come residuo di naturalità. Che  il mistero della generazione e corruzione abbia smesso di interrogarci come se da ciò che chiamiamo – forse con troppa semplicità – natura fosse già stato tratto tutto quel che occorre, è tutt’altro che ovvio. Il metamorfosarsi del corpo, il suo nascere ed il suo morire, il suo contrarsi negli spasmi del godimento o del dolore, il suo putrefarsi, questa dimensione che potremmo dire deiettiva ma che è intimamente connessa con la vitalità, mi sembra resistere alla hybris ermeneutica che tutto sembra ridurre ad un gioco di maschere, di finzioni. Quel che invece un corpo ed anche una pittura a volte evocano è una resistenza, un ostacolo alla dicibilità. E non perché si dia una negatività originaria, un fondo oscuro da cui poi emerga il senso: questo fondo oscuro semai è sempre lì, a portata di mano come l’ombra che circonda le cose. E’ auspicabile tutto meno che una fascinazione del negativo. La coscienza che il corpo non esaurisce né la realtà mia propria, né quella dell’altro, che il desiderio è imprendibile, che la vitalità alla fin fine riposa sul difficile equilibrio tra veglia e sonno, movimento e staticità, esaltazione e intorpidimento può esser pegno anzi di un incontro reale, di un incrocio tra due sguardi che non vedono riflessa l’uno nell’altro ciascuno la propria vacuità.
E’ per questo che l’opera in qualche modo assorbe in sé il negativo: non per rappresentarlo ed idolatrarlo, né per indicarne un superamento prossimo venturo. Così si avrebbe solo una fissazione che provoca una perversione dello sguardo: la distanza si annulla, il negativo si trasforma quasi in un comodo convivente, di cui non occorre dir più nulla. E’ forse necessaria una messa in scena diversa, che evochi quasi un ascolto, un guardare attento a quell’oltre dell’opera che può essere un incontro con un volto altrui;e questo sapendo quanto difficile sia quel mantenimento della distanza che solo ci può impedire di scambiare quel volto per una maschera.
Vi è un elemento di rischio nel presupporre l’insoddisfacibilità del desiderio, che nel rapporto dell’artista con il suo pubblico si traduce con l’accettazione della non rinvenibilità di un luogo proprio per l’arte, per il gusto. Altrimenti si dovrebbe immaginare una sorta di magica affinità tra l’artista e il pubblico, la presenza di un’idea comune ad entrambi presente nell’opera. Accettare questo rifiuto possibile è ciò che accomuna l’esperienza artistica a quella corporea: l’avere un corpo, o meglio essere un corpo è questo rimando infinito del desiderio, questa aspirazione alla danza che deve fare i conti con la pesantezza.
Come in una pittura che richieda la fatica della lettura, la necessità di una sosta prolungata, anche a costo dell’interruzione di un sentiero abituale.

 

Massimo Negri,  I libri sibillini di Paolo Cervi, pieghevole della mostra personale alla Kriterion Gallery, Milano, 18 – 27 Maggio 1988
 In una immaginaria biblioteca del futuro, quel futuro forse dominato dai teleschermi di cui molti parlano, i «libri» di Paolo Cervi susciteranno curiosità inquiete . Pensate alla tela come a un foglio di carta, da legare e comporre e formare dei libri dipinti, senza parole da leggere e senza illustrazioni da riconoscere, dei supporti creati per un modo specifico di comunicare – quello appunto del libro – piegati ad altre maniere, ad altri linguaggi da cui la parola è bandita.
Libri-colore, libri-materia che impiegano alfabeti insieme remoti e antesignani di future incomunicabilità, capaci di scatenare il più ampio gioco delle interpretazioni, delle reazioni, delle sensibilità.
Libri sibillini.
A cui ricorrere, come gli antichi, per evocare, per scrutare esperienze vissute o anticipare nuovi stati d’animo.
A un rinnovato “adire libros sibyllinos” invita questa mostra, dove Paolo Cervi presenta alcuni dei suoi lavori su tela montati a libro unitamente a una serie di dipinti, in cui oracoli senza volto diventanopresenze umane di questi stessi libri arcani, forse, destinatari o artefici.
Una mostra nelle regole di un gioco del precario e dell’ambigo, in cui il visitatore potrà manipolare e «leggere» i termini estremi di un intenso impegno pittorico.

 

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