Quel che resta dei volti

di Marcello Monaldi

Quanto contano per noi, oggi, le facce delle persone che incontriamo? Quanto ci abbandoniamo ancora all’antica tentazione del giudizio fisiognomico per stabilire o meno un contatto, per orientare la nostra condotta, per individuare di primo acchito i nostri simili? In che modo identifichiamo ancora sentimenti, stati d’animo con un volto che li incarna, fino a che punto siamo in grado di vivere la nostra interiorità attraverso l’accompagnamento di facce che appartengono alla nostra vita? E quanto contano i lineamenti, le forme del viso e del corpo umani per l’arte, che è da sempre lo schermo su cui si materializzano i nostri bisogni più profondi?

I volti e i corpi sono oggi più che mai terreno di conquista, modellati da nuovi canoni estetici, assimilati progressivamente tra loro, manipolati dalle sperimentazioni scientifiche oppure vissuti come occasioni di contagio e contaminazione, come pericolose estensioni materiali che ci espongono all’invasione del mondo, pezzi di mondo che si ingombrano e si urtano, masse informi di individui che perdono ogni connotato personale. Con insistenza ci sentiamo ripetere: che senso ha continuare a scavare dietro i lineamenti di un singolo viso se l’intera umanità si avvia a percepire la sua presenza sulla terra come quella di uno sciame infestante che si ingrossa a vista d’occhio? I volti rimandano a epoche di umanesimi ormai tramontati, a periodi in cui la storia poteva ancora essere intesa come il divenire dell’essenza umana in via di realizzazione, come lo sviluppo di una linea che disegna il volto dell’uomo.

Ma così anche la vita attuale, non solo il futuro, di questi abitatori umani del pianeta si arrende senza condizioni a un destino di alienazione, che si consuma secondo modalità che sono tanto violente quanto sottilissime e insinuanti, tanto macroscopiche quanto invisibili e impalpabili. L’arte figurativa, sismografo anticipatore dei terremoti di profondità, ci parla da almeno un secolo di questo smarrimento di identità, da quando la presenza stessa del volto e del corpo umani nella superficie pittorica del quadro è diventata un problema, da quando l’integrità dell’immagine dell’uomo non ha più trovato uno spazio disposto ad accoglierla e custodirla. Il fatto che la fotografia e il cinema abbiamo "salvato" l’effigie e il simulacro esteriori di questo essere, riproducendolo all’infinito, non è di per sé garanzia di nulla, perché anzi questa nuova versione iconica si accompagna al rischio di anestetizzare lo sguardo, di patinare la nostra percezione del mondo e di noi stessi in modi addirittura più subdoli e striscianti, fino al punto di attivare e accendere soltanto una sensibilità gregaria, distratta, meccanizzata nella sua fantasmagorica libertà.

1. Il progressivo distacco della pittura dalla rappresentazione dell’uomo viene ricondotto di solito alla diffusione della fotografia, che prende così il posto dell’antica arte del ritratto. E’ un fatto incontestabile: la facilità della riproduzione, la resa sempre più fedele delle lastre fotografiche hanno finito ben presto per trasformare l’atelier di molti pittori in sale di posa. Ma la pittura non ha cessato da un giorno all’altro di occuparsi dell’effigie umana, per un lungo tratto essa ha invece accompagnato in maniera originale e autonoma la nuova moda del ritratto, pian piano trasformatasi in consuetudine. La pittura dei primi decenni del ‘900 ci offre una rassegna di corpi e di volti umani sconvolgenti per profondità e impatto visivo. L’arte figurativa ha ormai rinunciato a ogni esigenza mimetica, non guarda più alla superficie, magari lussureggiante, dei fenomeni ma si immerge in una apnea mozzafiato alla ricerca di nuovi abissi, si getta in nuovi fondali inesplorati.

Uno snodo fondamentale non solo per l’estetica ma anche per l’effettivo dispiegarsi delle vicende artistiche del ‘900 è il contributo teorico di Konrad Fiedler, che prende le distanze con decisione dall’idea che l’arte abbia a che fare primariamente con la bellezza o meglio con il sentimento di piacere che a questa si accompagna. Per Fiedler l’arte deve essere sottratta alla variabilità del semplice giudizio di gusto, essa è invece portatrice di una forma autonoma di conoscenza del mondo, diversa da quella concettuale e purtuttavia connessa a un’esperienza intellettuale. In senso lato, la conoscenza consiste nel portare un oggetto alla coscienza e quindi anche l’intuizione sensibile, una volta che sia condotta alla sua chiarezza visiva, rappresenta un contributo alla conoscenza. Il mondo dell’arte figurativa, in particolare, dispone di un linguaggio autonomo, di un linguaggio visivo e non verbale che è in tutto e per tutto parallelo alla parola: cogliere e sviluppare questa lingua formale dell’arte, intuitiva ma innervata di pensiero, afferrare la forma visiva e svilupparne la logica interna senza tradurla in concetto, ecco la vera essenza dell’arte, rispetto a cui l’effetto del gradimento estetico è qualcosa di secondario. Un’opera può essere pregevole, quindi pienamente artistica, anche se non produce nulla di gradevole. Il primato della forma artistica detronizza la bellezza dal vertice dell’arte e ridimensiona il ruolo del soggetto rappresentato come base dell’esercizio creativo.

Questo programma teorico, elaborato negli ultimi decenni dell’800, non manca di produrre i suoi effetti, che erano comunque nell’aria: la nascita dell’astrattismo negli anni anteriori alla prima grande guerra è senz’altro un riverbero di quelle riflessioni, si accompagna anzi a nuove e inevitabili riflessioni sul ruolo dei mezzi espressivi della pittura (linea, forma, colore), che rappresentano in concreto l’approfondimento del linguaggio formale del visibile teorizzato da Fiedler. Kandinskij, Mondrian, Malevic radicalizzano l’autonomia espressiva della pittura sino a decretare il superamento dell’oggettualità, sino ad aprire nuovi mondi popolati da forme non oggettuali, riecheggianti la vita organica oppure del tutto semplificate, geometriche, rasentando in qualche fase il vuoto assoluto, il limite stesso dell’immagine pittorica. Nuovi scenari che non mancano di produrre nuovi godimenti estetici ma sempre sopravanzati dall’esigenza di attingere possibilità conoscitive mai prima raggiunte, di toccare configurazioni plastiche che la mente produce nella sua fusione mistica con le forze cosmiche elementari. Del resto, la smaterializzazione del mondo operata dall’astrattismo vuole gareggiare con la scienza contemporanea nell’esprimere le leggi dell’universo, vuole esibire la trama e le connessioni del tutto al posto degli oggetti materiali.

Anche laddove l’oggetto non scompare (surrealismo, espressionismo, futurismo, cubismo), esso viene alterato, smembrato, dilatato, proiettato in maniere del tutto inedite: non è solo la natura, sottoposta ai processi trasformativi della società industriale, a essere investita da questa deformazione, è anche e soprattutto l'uomo, il suo corpo, a essere centrifugato o assemblato secondo nuove spinte ormai irresistibili, egli è tutto fuor che il dominatore dei processi che ha scatenato. Qui si apre la fase più inquietante e affascinante nella storia della rappresentazione dell’uomo ad opera dell’uomo: il linguaggio dei surrealisti, che traduce in forma visiva la scrittura automatica dell’inconscio, si abbandona a combinazioni stranianti, contamina forme umane e animali, trasforma i volti e i corpi in spazi abitati da oggetti misteriosi; con gli espressionisti tedeschi (Die Brücke) e austriaci, il nudo non allude a idilliaci contatti con la natura, diventa angoloso, scabro, privo di forme, ha in sé qualcosa di smunto e postribolare oppure ritrova il suo erotismo nella contorsione, nella linea di Schiele che assomiglia a un’incisione; i cubisti, primo fra tutti Picasso, si misurano con una scomposizione volumetrica da tutti i punti di vista, distruggono per ricomporre ma sempre in forma spezzata. Bisogna guardare ai pittori inclini alla "decorazione", come Klimt e Matisse, per trovare accenti meno laceranti, celebrazioni e non violenze, culti della fecondità, "gioia di vivere" espressa attraverso la corporeità. Ma non è lo stesso Matisse ad abolire i lineamenti, a consegnarci degli ovali vuoti al posto dei volti, un po’ come nel caso degli ultimi ritratti "vuoti" di Cézanne? Anche Modigliani, per tanti versi un grande isolato, ha saputo infondere calore e attrattiva nei suoi nudi distesi.

Nella prima metà del ‘900 l’immagine umana (bisognerebbe dire: femminile) ha comunque mantenuto il suo interesse per la pittura, magari nei tanti volti infantili o caricaturali di Klee, ben presto sostituiti però dagli sgorbi di Dubuffet, dalle mostruosità di De Kooning o dagli sfiguramenti di Bacon. Il progressivo retrocedere della pittura figurativa in generale ha fatto il resto nel decretare l’emarginazione o meglio la sparizione dell’umano dallo spazio del quadro, salvo concedergli una nuova passerella all’insegna dell’immagine fotografica, dipinta e riprodotta in maniera seriale, come è avvenuto per tanti esponenti della Pop Art.

2. Già, la fotografia: l’abbiamo lasciata a fare ritratti in bella posa e ora scopriamo che, assieme al cinema, essa è diventata sempre più la vera depositaria dell’effigie umana nel corso del ‘900, con la sua capacità meccanica di fermare il tempo, di arrestare per un attimo il corso biologico ed esistenziale di una vita, di una faccia, per poi moltiplicarla a piacere. Ma se la pittura novecentesca si allontana dalla bellezza, ecco che la fotografia diventa, involontariamente, la sua nuova ancella, perché il portato inevitabile del suo filtro consiste nello stabilire un rapporto estetico con i soggetti che cattura, come ha riconosciuto lucidamente e senza moralismi Susan Sontag. Tutto diventa in qualche modo bello una volta che sfila davanti all’obiettivo di una macchina fotografica. Lo sapeva bene anche Walter Benjamin, che pure voleva esaltare il potenziale politico, documentario, anticelebrativo della fotografia, e lo sapeva a tal punto da ritenere indispensabile l’uso della didascalia per fare in modo che le parole "salvino" l’immagine, orientandola e contestualizzandola, dal suo involontario estetismo. Il consumo odierno di immagini fotografiche, la loro ubiquità (dai giornali ai cartelloni pubblicitari), sono tali da diffondere a piene mani una nuova aura mediatica, diversa da quella irripetibile dell’opera d’arte tradizionale, che era legata a un qui e a un ora statici: non si tratta più di opporre a qualcosa di unico la sua versione riprodotta, si tratta invece di riconoscere che l’esemplare riprodotto è portatore di una nuova guaina, di un glamour che diventa tanto più evidente quando a essere riprodotti sono dei corpi, dei volti.

Roland Barthes ha visto in tutto questo non l’estrinsecazione dell’essenza della fotografia ma, in certo modo, il suo addomesticamento, quasi il suo tradimento: l’evidenza dell’immagine fotografica, difficile da sentire nel marasma mediatico delle nostre società, sarebbe una sorta di certificazione dell’esistenza dell’oggetto fotografato, una sorta di attestato del suo essere stato. L’oggetto fotografato, di sicuro, è stato, è esistito, la sua presenza non è fittizia ma in tutto e per tutto reale: quando poi si ha a che fare con il corpo e il volto di chi si ama o si è amato, ecco che la fotografia ci fa compiere un altro passo, consistente nel voler ritrovare la persona tutta intera, nella sua completezza, nel suo valore, che è poi l’aria, quel non so che di cui si sostanzia l’espressione di una individualità. La fotografia entra così nel regno della follia: lo sguardo immobile della persona ritratta, che dalla foto ci fissa dritta negli occhi assumendo un’insistenza imbarazzante, è come l’occhio che guarda e non vede, mentre io che corrispondo a questo sguardo sono invaso da una sorta di allucinazione, mi trovo dinanzi a una presenza-assenza inedita, al punto che posso anche ritrovare la pienezza, l’integralità di una persona nella sua foto arrivando così a caricarmi di slancio, d’amore, di pietà per chi ho dinanzi a me come se "ci fosse" (e in qualche modo "c’è" davvero).

"Il ‘destino’ della fotografia sarebbe dunque questo: facendomi credere (ma una volta su quante?) che ho trovato la ‘vera fotografia totale’, essa crea l’inconcepibile confusione tra realtà (‘Ciò è stato’) e verità (‘E’ esattamente questo!’); essa diventa al tempo stesso constatativa ed esclamativa; essa porta l’effigie a quel punto di follia in cui l’affetto (l’amore, la compassione, il lutto, l’impeto, il desiderio) è garante dell’essere. La Fotografia si avvicina allora effettivamente alla follia, raggiunge la ‘verità folle’". Barthes parla non a caso di foto in cui c’è qualcuno che corrisponde al mio sguardo, parla davvero di volti che si guardano e che partecipano entrambi di una follia emotiva e percettiva ma sa anche bene che il ruolo dominante nella fotografia nella civiltà odierna consiste nell’occultare questo scambio folle, estetizzando l’immagine o trasformando la realtà in semplice icona, derealizzando il reale. Questo conta per lo più. E da qui si deve ripartire.

La posa frontale è sempre meno utilizzata, le immagini ci raggiungono dai punti di vista più vari, il nostro sguardo si incontra raramente con il soggetto fotografato e, anche quando si incontra, il suo trattamento involontariamente estetico, connesso al mezzo e a certi stilemi dominanti, ha la meglio su tutto. Io non mi sento guardato dalle foto, sono io che le guardo, le consumo, il mio voyeurismo corrisponde a un esibizionismo consapevole o procurato. Il cerchio degli sguardi non si chiude, non mi sento interrogato, provocato, inchiodato dallo sguardo che ho davanti ma scivolo via, glisso, faccio finta di niente. Così la spettacolarità, l’illusione perfetta prevalgono e la "realtà intrattabile" resta occultata. E’ un po’ l’effetto della vernice metallizzata, di un cellophane impalpabile che porta a specchiarmi sulle cose proteggendomi dalle punture, dalle scorticature.

Certo, anche la fotografia, come ha mostrato Barthes, può aiutarmi a trovare un varco verso la realtà carnale, viva e dolorosa, può portarla davanti a me ma è forse la pittura che, ormai affrancata dal carisma della bellezza, può riuscire più efficacemente in questo. Perché è così importante il sentirsi guardati dall’immagine di un volto, di un corpo, perché è così decisivo che lo sguardo rimbalzi dentro di me? Forse perché è uno dei modi che abbiamo a disposizione per sentirci individuati, situati, ancorati, immersi, guardati e non solo guardanti, visti e non solo vedenti, forse ciò equivale a sentire il mondo attorno, attraverso lo sguardo, come anch’esso animato, carico di forze, di energie, di mistero, di occhi che ci scrutano. C’è un quadro di Paul Klee del 1938, uno degli ultimi, in cui un omino sagomato a forma di quadrato si aggira sotto una parete di forme enigmatiche, pullulanti di occhi e di facce labirintiche: il suo titolo è Contemplazione. Una delle tante metafore della creazione artistica si può riassumere nell’esperienza di un sentirsi guardati più che di un guardare, nel sentire che la nostra visione è carica di forme che si impongono da sole, come se fossero il portato di uno sguardo elaborato altrove.

3. A proposito di volti e sguardi che si richiamano, un caso emblematico è rappresentato dal cinema di Fellini, certamente non il solo ad avere sperimentato in questa direzioni ma forse più di altri capace di utilizzare la pittura, la sua fissità muta, per stabilire un dialogo sotterraneo con lo spettatore. Non è tanto l’ incontenibile tendenza felliniana al metacinema, al film nel film, che qui interessa, bensì l’impiego di facce dipinte, di maschere, effigi silenziose: chi ha visto Fellini Satyricon, con le sue parate di acconciature eccentriche e sovraccariche, è stato anche colpito dalle serie ininterrotta di immagini che sono dipinte nei luoghi dell’azione, dalle sale in cui si tiene la cena di Trimalcione, alle pareti del museo visitato da Encolpio, alle decorazioni che adornano i muri del Giardino delle Delizie, agli affreschi mostrati nell’ultima inquadratura. Così pure in Roma, memorabile è la scena del rinvenimento di un affresco romano durante gli scavi per la metropolitana, un affresco che ritrae antichi patrizi, affiorati dalla profondità del suolo con i loro volti effimeri e presto dissolti dall’aria moderna che penetra dal foro che ha permesso di vederli per l’ultima volta; e quanti quadri sono appesi nei saloni romani del Vaticano, a contorniare le facce incartapecorite degli spettatori della sfilata di moda ecclesiastica! Quante facce appese alle pareti nel Casanova! La continuità del film è costellata di volti che ci danno il senso di un passato, di altre facce che sono esistite e che stanno lì, mute, a chiederci qualcosa…

Il riferimento a Fellini mi serve per concludere questa breve rassegna di temi: altri volti hanno accompagnato le parole spese finora, i volti di Paolo Cervi Kervischer, un pittore triestino che si misura da tempo con la corporeità, lo sguardo, il senso della carne. Non c’è dubbio che i suoi volti ci guardino: sono frammenti, lacerti che parlano dalle fessure degli occhi, della bocca, si lasciano guardare ma soprattutto guardano e ci costringono a tornare su noi stessi. I visi occupano quasi sempre tutta lo spazio del dipinto, in questo senso sono invadenti; i loro colori vivaci non hanno nulla di cosmetico ma risaltano per carica vitale, per forza emotiva. I corpi sono aperti, hanno pose dischiuse ma non si offrono al consumo, al contatto, sono invece adombrati, carbonizzati come macchie depositate. La bellezza non è al centro dell’interesse di Kervischer, piuttosto un rapporto di richiamo e provenienza che sale dai corpi: visi interroganti e fascinosi, corpi femminili che generano, che accolgono, davvero frammenti di un discorso amoroso per immagini, rispetto a cui tutte le parole spese finora vogliono essere solo una piccola introduzione.

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